ESPERIMENTI DI ORGANIZZAZIONE FUORI DALL’ITALIA: OLANDA E PORTOGALLO

La cultura organizzativa può assumere caratteristiche diverse a seconda dei paesi in cui ci si trova. Come organizziamo il lavoro – le priorità che identifichiamo, le risorse che distribuiamo, le condivisione che strutturiamo – dipendono da vari fattori: i valori culturali del paese, gli stili di comunicazione, l’atteggiamento verso l’autorità, l’educazione e l’allenamento a gestire le dinamiche organizzative, le norme sociali.

Qui potete trovare alcune rapide considerazioni sulla base delle esperienze lavorative di una P.O. all’estero: nello specifico: Paesi Bassi e Portogallo.

 

L’esperienza olandese

Nell’ambiente in cui lavoravo, era riconosciuto a priori il plusvalore di una buona organizzazione, traducibile in obiettivi chiari, capacità di prioritizzare, tempistiche definite, una squadra allineata e non affaticata – e quindi veniva investito tempo e denaro nella sua continua ottimizzazione e implementazione. La cultura olandese è molto concreta, a volte anche “maleducata” in questo suo essere diretta ad ogni costo, e questo approccio aiuta a leggere le dinamiche lavorative in quanto tali.

Ogni dinamica lavorativa può essere letta come un insieme di abitudini acquisite nel tempo, e quindi non necessariamente abitudini efficienti ed efficaci, ma semplicemente quelle che conosciamo. Nel mantenere uno sguardo critico siamo in grado di valutare il come lavoriamo per quello che è, un insieme di attività e modalità che non sono scolpite nella pietra ma che possono essere riviste, migliorate, eliminate, rimpiazzate da nuove modalità che rispondono meglio alle nostre esigenze.

In Olanda le persone non misurano il proprio valore come persona con il valore del proprio lavoro. La dimensione personale è importante sul lavoro per il tipo di valori e di esperienze che si portano, ma non si può confonderla con il lavoro che facciamo e come lo si svolge. Quindi, rivedere l’organizzazione di un progetto e/o di una squadra, testare nuovi processi e strumenti, sono passaggi normali e necessari, a cui tutti sono chiamati a partecipare.

Con i clienti italiani, invece, c’è sempre una dimensione molto personale che si mischia con quella professionale, come se analizzando e cambiando le modalità di lavoro si esprimesse una valutazione sul valore della persona e del lavoro che fa. Per quanto il cambiamento sia sempre un passaggio complicato, questo tipo di resistenza rallenta spesso questo percorso e soprattutto l’analisi della situazione esistente.

 

L’esperienza portoghese

Il grande fraintendimento sopra il Portogallo è che sia un paese mediterraneo. In realtà è un paese atlantico, la sua cultura è legata da secoli alla cultura e all’economia britannica, le persone sono gentili ma hanno un senso della privacy ed una discrezione decisamente british. É anche un paese altamente digitalizzato e con una profonda cultura laica e tecnologica.

Qualche anno fa, nella sala d’aspetto di uno studio di avvocati, per non morire di noia durante l’attesa andai a cercare, nell’immensa libreria di annali di avvocatura, il tomo relativo al mio compleanno, maggio 1972. Scoprii quindi che in quel periodo una commissione portoghese era stata invitata in Inghilterra ad una delle primissime conferenze sulla digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, per spiegare a tutti come si stavano già spostando tutti i dati e i processi su base informatica. Nel 1972!

Il Portogallo è stato uno dei primi paesi ad abbracciare questa tecnologia ed ora si vede: è tutto informatizzato. I miei suoceri, ultrasettantenni, usano abitualmente computer, e-reader, cellulari e fanno tutto online e in autonomia. A questa apertura verso la tecnologia, a cui si è introdotti già dalla scuola primaria, si potrebbe attribuire una generica attitudine a sperimentare, a non aver paura di nuovi processi e nuovi strumenti, a continuare ad imparare. Lavorare con clienti portoghesi significa avere interlocutori attenti, con già una base di organizzazione o perlomeno consapevoli dei propri limiti in questo senso. Ma soprattutto, pronti alla sperimentazione e curiosi verso nuovi metodi e strumenti.

 

Paese che vai, Organizzazione che trovi

Si potrebbe dire che l’approccio all’organizzazione sia molto legato alla cultura specifica del posto, con tutti i pro e i contro del caso.

Lavorare nell’ambito dell’organizzazione in Italia è, a mio parere, molto più difficile che farlo all’estero. Il perché è presto detto: la narrativa dominante sulla cultura italiana è di un popolo ricco di immaginazione, estemporaneo e allergico alle strutture di qualsiasi tipo. Una narrativa a cui crediamo prima di tutti noi italiani.

Convincere quindi i nostri compatrioti dell’importanza di allenare il muscolo dell’organizzazione (David Allen docet!) è sempre particolarmente impegnativo, perché il lavoro organizzativo viene visto come un peso, un rallentamento, e un limite alla propria capacità espressiva, soprattutto negli ambienti legati alle professioni creative.

E quindi è una battaglia persa? Assolutamente no, anzi! Perché la differenza che possiamo fare come Professional Organizer acquisisce un significato ancora più importante. Partiamo proprio dall’idea di fare pace con un’idea di organizzazione rigida e statica con cui siamo cresciuti, per poi poter usare tutta la nostra immaginazione per definire il nostro modo di organizzare e di lavorare, flessibile e creativo! Questo significa affrontare il cambiamento in maniera immaginativa, progettare insieme come arrivare alla loro visione ideale e far comprendere che hanno tutte le capacità di poterlo fare, una volta scrollate di dosso le sovrastrutture con cui siamo cresciuti.

 

Veronica Baraldi

www.veronicabaraldi.net

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